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Scritti apocalittici e apocalittica

Ultimo libro del NT, l’Apocalisse di Giovanni si ricollega per genere letterario a un gruppo di scritti denominati “apocalittici”, alcuni appartenenti all’AT, altri esterni alla Bibbia. Il termine italiano “apocalisse”, proveniente dal latino apocalypsis, a sua volta derivato dal greco apokàlypsis, indica l’atto di “togliere ciò che nasconde”, “scoprire”, “svelare”, nel senso di “togliere il velo per far apparire ciò che è nascosto”. Sebbene nel linguaggio corrente questo termine sia divenuto sinonimo di catastrofe, disgrazia di immani proporzioni, in realtà esso indica dunque una “rivelazione”. L’Apocalisse giovannea, poi, non ha al suo centro l’annuncio della fine del mondo e la descrizione anticipata dei disastri e dei cataclismi che accompagneranno tale evento. Il titolo del libro, «Rivelazione di Gesù Cristo» (Ap 1,1), indica che esso non rivela nulla di più di quanto è stato rivelato “da” e “in” Gesù Cristo, nell’evento pasquale, e applica tale rivelazione all’intera storia umana.

Dalla profezia all’apocalittica

“Apocalittica” è termine coniato in Germania agli inizi del XIX sec. per indicare una serie di scritti giudaici che presentavano somiglianze con l’Apocalisse giovannea (da cui pertanto proviene il vocabolo) e che erano ad essa all’incirca coevi. È dunque un vocabolo moderno e sconosciuto agli antichi e agli stessi autori dei libri cosiddetti “apocalittici”. In realtà il termine è molto generico, ampio e vago, e abbraccia opere che presentano sì analogie, formali e contenutistiche, ma anche parecchie differenze tra loro. Se in origine l’elemento che sembrava decisivo per accomunare la letteratura apocalittica poteva essere l’idea della fine del mondo, in seguito è divenuto più chiaro che questo elemento è uno dei tanti temi presenti in tale letteratura, e neppure quello prevalente. Resta quindi difficile, e forse perfino impossibile, definire in modo inequivocabile ciò che può essere ritenuto apocalittico.
Certamente, dal punto di vista storico, i momenti in cui si è prodotta letteratura apocalittica sono stati quelli più drammatici e cruciali per la storia d’Israele: l’epoca del postesilio, cioè successiva alla crisi dell’esilio babilonese; il periodo ellenistico, in particolare gli anni della persecuzione dei Giudei ad opera del sovrano seleucide Antioco IV Epìfane (175-164 a.C.); infine gli anni che seguirono la distruzione del tempio nel 70 d.C.
La catastrofe dell’esilio babilonese, caratterizzata soprattutto dalla caduta della monarchia, dalla perdita dell’indipendenza politica e dalla distruzione del tempio di Gerusalemme, ha posto in dubbio la possibilità di una salvezza all’interno della storia. Nella profezia classica il giudizio divino sui peccati del popolo tende a una conversione, a un mutamento etico da viversi nella storia, ed è così anche nei profeti Geremia ed Ezechiele, in cui però si acuiscono i toni pessimistici e si formula la speranza di una novità, un novum che si opera ancora all’interno della storia, ma che Dio stesso realizzerà: è la «nuova alleanza» che Dio stipulerà (Ger 31,31-34), è lo «spirito nuovo» che Dio metterà nei cuori dei figli d’Israele (Ez 36,26). Soprattutto in Ezechiele vi sono elementi che preludono all’apocalittica: visioni, simboli e immagini pittoresche (Ez 1-3; 37), descrizione visionaria del tempio futuro, con cui si esprime la speranza di un Israele nuovo e ideale (Ez 40-48).
La fede nella forza della parola di Dio fa sì che in Israele le profezie antiche, che non si sono ancora storicamente compiute, non vengano abbandonate, ma siano rilette e interpretate nelle nuove situazioni storiche, magari da discepoli di quegli stessi profeti che le avevano pronunciate, e vengano proiettate in un futuro ancora più lontano, alla «fine dei giorni». Il Secondo-Isaia, negli ultimi anni dell’esilio, vede una «cosa nuova» (Is 43,19; 48,6) che Dio sta per attuare nella storia: questa novità sarà il compimento delle antiche profezie, il rinnovamento dei prodigi di un tempo e la piena realizzazione della salvezza.
Il compimento solo parziale degli annunci dello stesso Secondo-Isaia, la nuova crisi e la profonda disillusione che il ritorno aveva suscitato in un Israele profondamente lacerato al proprio interno fra coloro che erano rientrati dall’esilio e quanti erano rimasti in patria, furono il terreno su cui sorse la profezia del Terzo-Isaia, che accentuò in toni escatologici l’attesa di un intervento salvifico divino e di una radicale trasformazione cosmica: «Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra» (Is 65,17; vedi anche 66,22). Sempre nell’immediato post-esilio, l’attesa messianica che caratterizza l’escatologia di Aggeo è ripresa da Zaccaria (Zc 1-8), che annuncia un intervento divino servendosi di visioni spiegate da un angelo e di un’ampia gamma di simboli che ritorneranno nella letteratura apocalittica: i cavalieri su cavalli di diverso colore (Zc 1,7-17), le corna (2,1-4), il candelabro e i due olivi (4,1-5), il rotolo (5,2), i carri (6,1-8).
Il brano chiamato comunemente dagli esegeti “grande apocalisse di Isaia” (Is 24-27), è di origine postesilica e il suo inserimento tra gli oracoli dell’Isaia dell’VIII secolo sembra già un’attuazione di quella pseudonimia a cui la letteratura apocalittica farà ricorso in modo metodico. Le immagini di un Dio guerriero che combatte l’ultimo nemico, la morte (25,7-8; 26,14.19), e i riferimenti a un conflitto celeste che oppone Dio all’«esercito di lassù» (24,21), rendono particolarmente eloquente l’inserzione di questi capitoli dopo gli oracoli sui popoli (Is 13-23). Con il libro di Daniele, redatto intorno al 165 a.C., si compie il passaggio da brani o elementi apocalittici presenti in testi profetici a un libro intero di natura apocalittica.

L’apocalittica giudaica

L’arco di tempo in cui si collocano i testi apocalittici giudaici copre quasi mezzo millennio: dal V/IV sec. a.C. alla fine del I sec. d.C. Un posto particolarmente rilevante all’interno di questa letteratura spetta a 1 Enoc (o Enoc etiopico), composto da cinque parti di epoche diverse: dopo un’introduzione (1 Enoc 1-5), abbiamo il Libro dei Vigilanti (1 Enoc 6-36; scritto probabilmente fra il V e il IV sec. a.C., è il più antico testo apocalittico), il Libro delle Parabole (1 Enoc 37-71; risalente al periodo tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C., è di capitale importanza per il NT per il rilievo che esso accorda alla figura del Figlio dell’uomo), il Libro dell’Astronomia (1 Enoc 72-82; del III sec. a.C. o forse più antico e quasi contemporaneo del Libro dei Vigilanti, si occupa soprattutto di problemi di calendario), il Libro dei Sogni (1 Enoc 83-90; databile intorno al 160 a.C., è praticamente contemporaneo del libro di Daniele), l’Epistola di Enoc (1 Enoc 91-104; metà del I sec. a.C.), segue poi una conclusione (1 Enoc 105-108). Questo “pentateuco enochico” gode ancora oggi di grande considerazione spirituale, teologica e liturgica nella chiesa etiopica. Ad esso si devono accostare 2 Enoc (o Enoc slavo), del I sec. d.C., e anche 3 Enoc (o Enoc ebraico), del V-VI sec. d.C. Negli studi odierni sull’apocalittica vi è chi adotta la definizione di “tradizione enochica” o “enochismo” per indicare le opere attribuite al veggente Enoc e nelle quali è testimoniata una vera e propria corrente di pensiero, incentrata sulla figura di Enoc, destinatario delle rivelazioni divine. Estremamente importanti sono anche le apocalissi giudaiche conosciute con il nome di Quarto libro di Esdra (4 Esdra), della fine del I sec. d.C., un testo molto noto e citato nel mondo cristiano antico, medievale e anche moderno; benché dichiarato non canonico dal Concilio di Trento, alla fine del XVI sec. fu addirittura stampato in appendice, dopo il NT, nella edizione Clementina della Vulgata. Infine, va ricordata anche l’Apocalisse siriaca di Baruc (o 2 Baruc), da situarsi anch’essa verso la fine del I sec. d.C.
La conoscenza rivelata di cui gode l’apocalittico e il messaggio trascendente che intende trasmettere (spesso concernente la vita nell’aldilà, la risurrezione, l’immortalità dell’anima, il giudizio finale, la trasformazione cosmica che segnerà il passaggio dall’eone presente all’eone futuro) trovano nel linguaggio aperto ed evocativo del simbolismo il mezzo più adatto per esprimersi. Le apocalissi abbondano di simboli, spesso grandiosi e barocchi: simboli teriomorfi (che cioè utilizzano animali per significare altre realtà), cosmici (in particolare i fenomeni e gli sconvolgimenti tellurici e atmosferici), cromatici, antropologici (ad esempio le vesti) e numerici. Se l’apocalittico volge uno sguardo intriso di pessimismo alla storia, che vede soggetta all’azione del Maligno, è perché egli intende rassicurare i credenti che vivono in tempi burrascosi, riaffermando la signoria di Dio sulla storia stessa.
Il carattere simbolico del linguaggio apocalittico si manifesta anche nelle frequenti allusioni alle immagini o ai testi tradizionali, a cui si dà una nuova interpretazione: un tipico esempio al riguardo è la profezia di Geremia sui settant’anni dell’esilio (25,11-12; 29,10), ripresa e reinterpretata da Daniele (9,1ss). Il destinatario umano delle rivelazioni è normalmente un personaggio famoso che appartiene al passato (Enoc, Daniele, Esdra, Baruc) ed è in grado di predire ciò che avverrà in futuro. In questo futuro si colloca sia il tempo critico in cui vive l’autore reale - spesso l’ultimo periodo della storia del mondo - sia l’epoca successiva, in cui si realizzerà la salvezza definitiva. A questo modo l’autore reale, nascondendosi dietro alla pseudonimia, non solo conferisce autorevolezza e antichità allo scritto, ma lo pone anche in continuità con la tradizione anteriore. Nello stesso tempo si viene anche ad accentuare il determinismo storico che si cela nella visione apocalittica della storia.